BRUNO CARDINI

Libera_mente

Zingaro a Mauthausen

Nel 1965 Mursia pubblicò il libro di un superstite di Mauthausen: Vincenzo Papalettera. Il libro era eccezionalmente documentato e scritto, a pezzi, qualche anno prima. Un capitolo riguardava uno zingaro e un ebreo di Rodi superstiti. Poco come la letteratura di 45 anni fa può farci capire gli zingari di oggi. Vi invito a leggere e riflettere

MISHA E RAPHAEL

Misha  era destinato dal nazismo alla distruzione, come tutti gli zingari. Hitler li giudicava « soggetti appartenenti ad una razza inferiore » e li liquidava. Misha si è salvato, solo della sua numerosa tribù, grazie alla sua eccezionale vigoria fisica ed alla capacità di adattamento alla dura vita dei lager. li arrivato a Mauthausen in aprile fra i pochi superstiti della  evacuaziohe di Buchenwald. Nelle camere a gas erano perite la giovanissima moglie incinta, la figlioletta di un anno, i suoi vecchi e tutti i componenti la sua tribù.
Misha è selvaggio, fiero, superbo, intrepido. Impreca contro tutti. Non riesce a credere noi, suoi compagni di deportazione con il triangolo rosso, diversi dai comuni persecutori.
Divide l’umanità in due razze: la prima, composta da uomini organizzati in una noiosa vita sociale provvista di residenza stabile, l’altra, la sua, composta di nomadi per innato amore alla vita libera.
È giovane Misha; non gli hanno neppure lasciato il tempo di completare il primo cielo della vita, consistente nel percorrere interamente le due sponde del Danubio, in un lungo viaggio di andata e ritorno. Infelice e solo, a modo suo è già rimpatriato.Si è installato in un punto della collina, da dove vede un lungo tratto del suo Danubio, il Dunarea, come lo chiama lui con tono familiare. Ha creato il suo piccolo nido vicino ad un - ruscello. Vive in una minuscola capanna da lui costruita ingegnosamente con legno e foglie dei boschi e coperte del campo.
Soffre la solitudine ed il silenzio. Stasera ha invitato a i suoi compagni sopravvissuti del bunker-kommando del Danubio.
Siamo in quattro; Papalandreu, mite e rassegnato contadino greco rastrellato nel suo Peloponneso, Raphael, ebreo di Misha lo zingaro, padrone di casa, ed io, il più anziano.
Una manciata di riso nelle esperte mani dello zingaro si trasforma presto in uno squisito risotto. Misha sceglie la legna adatta, la taglia, accomoda alcune pietre, accende il fuoco, lo ripara dal vento, si reca al ruscello ad attingere l’acqua nella misky destinata a fare da pentola,Seduti intorno al fuoco chiacchieriamo e ci scaldiamo; sono ancora fredde le serate,
Mentre il riso cuoce, Misha, pur indaffarato a rimestarlo, impreca:
— Voi cosiddetti uomini civili siete spergiuri. Avete ripreso massacro di noi tzigani dopo un secolo di tregua. Vi eravate impegnati a considerarci eguali a voi. Liberi di andare ovunque, con gli stessi obblighi e gli stessi diritti. Da oltre cento anni eravamo ammessi persino al diritto di unirci in matrimonio con gli altri cittadini. Siete spergiuri; voi busnès non avete mantenuto a lungo il vostro impegno.
Papalandreu mi guarda e dalla sua espressione capisco che neppure lui conosce le promesse fatte agli zingari dai nostri antenati con dimora stabile nei pressi del Danubio.
Misha continua a lungo ad elencare accuse a carico di noi busnès. Cosi chiamano noi cristiani con dimora stabile, nel gergo tzigano, il calò.
Il risotto pronto distrae Misha. Ci passiamo la gamella scottante, una cucchiaiata a testa è presto finito.
Lo stomaco pieno placa l’amico zingaro, con tristezza declama:
secoli di dolore passarono come una lunga tempesta curvando la fronte d’un po polo sventurato; ma il Romeno infrange oggi, con la sua mano possente, i ceppi della schiavitù lo tzigano, libero infine, si sveglia in seno alla felicità. Gloria e grandezza a te, o mia nobile patria, tu che hai santificato il diritto e la giustizia. Il tuo braccio, spezzando il giogo degli Tzigani, gettò nell’avvenire il seme della tua stessa libertà.
La citazione ed il tono deluso dimostrano che Misha contava su quella lontana promessa, considerata dagli zingari valida e definitiva in tutto il bacino danubiano.
Quella poesia era il loro Vangelo, la cui memoria tramandata dai padri ai figli, dava a tutti l’illusione che né il trascorrere degli anni, né i rivolgimenti politici fra i busnès potevano rinnegare il loro diritto alla vita ed alla libertà.
Lo sterminio ordinato da Hitler li ha colti di sorpresa; i pochi sopravvissuti non si rendono conto dei motivi neppure oggi.
Tutto quanto sapevano era che ancora una volta i busnès si uccidevano tra loro per il possesso di una città, di una regione.
Ciò non allarmava gli zingari che, anzi, si compiacevano per il loro saggio sistema di vita, alieno da qualsiasi attaccamento alla terra.
Raphael tenta di far capire a Misha che ben più profondo era il dissidio, che cosa è il nazismo ed il razzismo, e perché i tedeschi, hanno perseguitato ebrei e zingari, perché milioni di uomini, appartenenti a molteplici nazioni e continenti, lottano contro il nazismo, mentre centinaia di migliaia di europei « muniti di noiosa residenza stabile » dividono nei lager la stessa sorte degli zingari e degli ebrei.
Misha non comprende bene, però la nostra presenza qui, assieme con lui, lo persuade. Non insiste, smette, di imprecare. Rivive la sua lieta vita di zingaro danubiano descrivendocela con il suo modo di parlare ottocentesco-
— Trascorrevo le mie felici giornate camminando accanto ai miei cavalli, magri e scuri come noi tzigani, lungo le strade ciò affiancano il Dunarea. Altri giorni mi accampavo nei boschi per provvedermi di legno di pioppo, salice, faggio ed abete che sul luogo trasformavo in tinozze, cassapanche, sedie, sgabelli, cucchiai, scodelle. La sera suonavo il mio violino, accompagnato soltanto dal kobsa (mandolino tzigano), o con intere orchestre, nei boschi o nei villaggi, dove ero chiamato per festeggiare avvenimenti lieti. Nei villaggi vendevo tutto, barattando così il mio lavoro con viveri ed indumenti.
— Che dici, Misha? Voi zingari non lavorate, — lo interrompe Papalandreu. — Vivete di elemosine, predite l’avvenire leggendo la mano, quando non’ vi diamo l’elemosina maledite, lo stesso fate anche quando, secondo il vostro giudizio, l’elemosina non è generosa.
Misha, infuriato, reagisce urlando:
— I nomadi che vivono di elemosine sono degli irregolari appartenenti alla vostra razza, lasciano le vostre consuetudini per spirito di avventura o peggio per sfuggire alla giustizia,
Poi subito si calma e prosegue spiegandoci pazientemente:
— Nulla hanno a che vedere con noi tzigani danubiani; noi siamo originati di un’antica casta indiana. I Sigani. I nostri avi erano saggi e deliberatamente scelsero la vita nomade come la più adatta e felice per la natura umana. Attraversarono Asia .ed Europa mille anni or sono, dall’India all’Iberia in viaggi durati generazioni e generazioni, valicando monti scoscesi ed aride vallate alla ricerca di una terra ricca di fiumi, boschi e prati verdi, cli un clima mite.Quanto occorre per l’amata vita nomade. Fu una pacifica ondata di tutto un popolo che emigrò da oriente verso occidente, seminando suoi figli lungo tutto il cammino. Persia e Turchia furono le prime dimore, definitive per alcuni. I più proseguirono il viaggio attraverso Bulgaria, Valacchia, Serbia, Slavonia, Banato, Ungheria. Avanti ancora verso occidente, Austria, Baviera, Francia e Iberia. Soltanto l’immenso mare arrestò gli antichi Sigani.
Bisognò tornare indietro e dividersi; gli amanti del sole si sparsero nella Spagna. La maggior parte invece tornarono fino alla vallata del Dunarea, la terra alfine scelta.
Persecuzioni ricorrenti falciarono •il nostro popoio.
L’esperienza insegnò che bisognava allontanarsi precipitosamente dalle regioni colpite dalla peste e da altre epidemie, i lunghi periodi di siccità o semplicemente quando il popolo aveva fame; non soltanto per evitare il contagio o la miseria, ma perché ad ogni calamità seguiva una persecuzione. Principi e sultani, papi e patriarchi, imperatori e gran visir, pascià, nobili, vescovi e bojardi, maomettani e cristiani fecero gara per tagliare le teste e bruciare vivi i miei avi, uomini donne, con il pretesto che erano stregoni e streghe generati dal demonio ai quali addebitare epidemie, miserie e siccità. Pretendevano di curare i malanni dei loro popoli uccidendo tzigani, altre volte vendendoli schiavi in massa, da un tiranno all‘altro, o sui mercati, uno alla volta.
Attraverso i secoli le persecuzioni continuarono sotto varie forme; altri massacri, espulsioni, residenze coatte, balzelli possibili, sequestro dei beni.
Gli antichi tzigani dovettero modificare usi e costumi, abbracciare nuove religioni, assimilare abitudini locali. Infinite furono le rinunce, i compromessi pur di poter continuare la vita nomade.
Tuttavia molti cedettero, confondendosi con le popolazioni abituate a dimore stabili.
Altri tzigani invece preferirono fuggire, spostandosi a nord a sud in cerca di scampo in nuove terre governate da principi disposti a tollerarli.
Verso il nord in Transilvania, Bessarabia, Galizia, Bucovina, Crimea, Polonia, Danimarca, Scozia, Moravia, Boemia e Lituania. Verso sud in Bosnia, Erzegovina, Dalmazia e Italia. Le persecuzioni finirono il secolo scorso intorno al 1840. allora vivevamo lieti con i proventi del nostro lavoro. Nulla chiedevamo se non di essere lasciati vivere in pace a modo stro. Tutti abbiamo un mestiere. Vi sono tribù che intrecciano ceste, canestri, impagliano sedie, sgabelli. Altre, per tradizione, riparano tegami, pentole, paioli. Vi sono tribù con attrezzate fucine ambulanti ed abili fabbri; costruiscono scuri, seghe, scalpeffi, martelli, tenaglie. Altre famiglie lavorano il cuoio, lo trasformano in selle, finimenti, cinture, calzari. Zingari appassionati allevano cavalli abituati con poco cibo a trainare molto. La mia tribù ha sempre lavorato il legno. Ad ogni incontro ci scambiamo i prodotti del nostro artigianato. Combiniamo matrimoni durante feste da ballo nei boschi, fra un’infinità di ciarle; musica fino al mattino, veglie che finiscono talvolta in caotiche risse accese dalla gelosia per le nostre ragazze, la cui giovinezza esplode all’improvviso. Vestono ampie gonne dove fissano tutti i colori dell’arcobaleno, si ornano delle più sgargianti collane, ostentano orecchini vistosi, bracciali originali.
Non da ciò siamo eccitati, ma dalle candide camicette le cui pieghe verticali lasciano intuire gioielli veri di carne viva ed inquieta, palpitante di esuberanza e civetteria I loro baci sono quasi morsi, le ore tumultuose d’amore, lotte di sensi mai sazi; si considera disonorata quella tzigana che dice basta.
Per il futuro avevo in programma di trascorrere dieci anni per risalire il Dunarea, dalle foci, nell’ospitale Dobrugia sulle rive del Mar Nero, su, lungo la Romania e la Bulgaria, poi attraverso le Porte di Ferro nelle Alpi della Transilvania entrare in Jugoslavia, quindi a nord in Ungheria, poi verso occidente in Austria ed infine in Germania, fino alle sorgenti del fiume nella Selva Nera. Mi ero ripromesso di non lasciarmi mai indurre a passar sull’altra riva, che doveva riservare intatte le sue sorprese per il viaggio di ritorno. Altri dieci anni. Questa volta a nord del fiume passando anche per la Cecoslovacchia, percorrere poi la strada di Trajano, passare dove-fu il ponte che porta il suo nome e dalla Torre Severina.In questo modo avevo diviso la mia vita in cicli, ognuno di circa vent’anni. Quanto dura l’intero viaggio per risalire e scendere tutto il Dunarea. L’esperienza dei miei vecchi insegna che non avrei rivisto le stesse cose tre o quattro volte, perché ciò che gli occhi di un fanciullo vedono è diverso d quanto interessa l’uomo fatto, vent’anni dopo.
Così la maturità scopre altri aspetti della natura e della vita trascurati nei viaggi precedenti. 
Il quarto viaggio, quanto mai incerto, è da nonno, con i figli e tanti nipoti intorno, poche attrattive ha il resto.
Invece un’improvvisa vasta persecuzione ha distrutto l’avvenire mio e dell’intera razza tzigana.
— Comprendo la tua amarezza, Misha; come la tua razza, anche la mia è stata vittima delle ricorrenti persecuzioni razziste, — dice Raphael quando la tosse accanita gli lascia una tregua Il mio passato era altrettanto lieto e sereno. Appartenevo ad una famiglia benestante di esportatori di vini ed uve. Non ho voluto ascoltare mio cugino Salomon quando proponeva a me, come a tutti noi israeliti, di abbandonare Rodi e la nostra agiata vita su quell’isola prodiga di benessere.
« Bisogna trasferirsi in Palestina, la nostra Israele », insisteva mio cugino. « Riunirsi a tutti gli ebrei ora sparsi per il mondo, costruire un nostro focolare nazionale, formare delle colonie agricole collettive, dei kibbuz. Costruire villaggi nel deserto, dissodare la terra, trovare il modo per irrigarla, piantare viti, aranci, ulivi, banane, seminare patate, pomodori, arricchire il kibbuz con tutti i nostri beni e vivere senza più la preoccupazione di dover accumulare denaro per costituirci un’indipendenza personale. Bisogna lavorare, insomma, a favore della collettività con tutta la propria intelligenza, forza e capacità, accettare di ricevere in cambio quanto basta per i propri bisogni ».
La tosse, secca, insistente, interrompe spesso il suo racconto. Stiamo in silenzio, attendiamo che riprenda fiato.
È magro Raphael, più di noi, si esprime con difficoltà, dissolto nel fisico, lucido nel cervello.
— A Rodi facevo parte di una famiglia numerosa, tutti mi volevano bene, avevo la ragazza, molti amici. Non trovavo motivo per cambiare vita. Le persecuzioni subite dagli ebrei nei seoli passati, sulle quali insisteva mio cugino, erano avveivano in tempi ed in terre lontane; non mi potevano quindi riguardare. Le leggi di discriminazione razziale emesse dai fasci- non venivano neppure applicate dalle stesse autorità italiane dell’isola. Non erano perciò prevedibili drammi per la nostra comunità ormai ridotta dai continui esodi. Vivevo spensierato, non mi sembrava difficile realizzare le aspirazioni: contemplare la luna che si riflette nel mare, un terrazzo a mezza collina ricoperta di ulivi, accanto ad moglie tranquilla. L’avevo trovata, il suo viso aperto mi ispirava amore e serenità. La politica non mi interessava. Perfino quando è scoppiata la guerra non ho saputo valutare quali conseguenze mi doveva arrecare.
Un giorno l’Italia usci dallà guerra ed i tedeschi arrivarono a Rodi. 
Fu la nostra fine. Ammassarono tutti noi israeliti, uomini, donne, vecchi e bambini, nella soffocante stiva di una nave, dove di solito mettevano il carbone. Eravamo nel luglio 1944-
Ci sbarcarono al Pireo assetati, affamati e sporchi; poi il viaggio prosegui da Atene nei vagoni merci, settantacinque in Qgnuno, donne, uomini e bambini. Tutti assieme.Non scorderò mai gli strilli dei bimbi, le lacrime delle donne, la disperazione degli uomini.

La destinazione era Auschwitz; l’intero viaggio è durato un mese. L’ultimo o di vita della comunità israelità rimasta a Rodi. Esisteva e prosperava da secoli, è stata distrutta in una notte, in Polonia, dopo aver attraversato mezza Europa. La morte ha radunato in quel lager nazista le comunità ebraiche di tutta l’Europa occupata dai nazisti. 
Misha, tu conosci l’angoscia della separazione dai propri cari Io Ho saputo poi che noi pochi giovani, messi in gruppo a parte perché considerati in grado di lavorare, il giorno successivo eravamo i soli ancora in vita. • Per poco tempo, del resto. Uno dopo l’altro li ho visti morire sfiniti ad Auschwitz e durante un successivo trasferimento da Auschwitz a Buchenwald, in un vagone merci aperto alla neve che cadeva abbondante in quei giorni di gennaio, sulle nostre teste rapate a congelare subito i morti.
Rimanevano ugualmente in piedi appiccicati ai vivi, per. ché ammassati come eravamo non vi era lo spazio per cadere.
Dei centodieci stipati su quel vagone siamo rimasti vivi in trenta. Altri sono morti sfiniti dal lavoro e dalla fame a Buchenwald dove la permanenza è durata due mesi, febbraio e marzo, poi in aprile decisero un altro trasferimento. Iniziò a piedi attrayerso boschi già disseminati di cadaveri zebrati; bisognava correre, obbedivamo, ciò malgrado ci sparavano addosso. Eravamo diretti alla stazione ferroviaria di Weimar. Un altro vagone, ancora un viaggio infame, altri morti. Uccisi i più dalle SS inferocite per non sapere dove condurci, tanto erano premute da sovietici ed americani. In poche decine siamo arrivati vivi a Mautbausen, Ho cercato inutilmente fra loro qualcuno di Rodi.
La magrissima e allucinata figura di Raphael mi è ben presente quando a metà aprile arrivò alla baracca 21; mi impressionarono i suoi occhi spaventati e fissi nel nulla.
Raphael ha ripreso flato e prosegue:
— Ho dei progetti precisi per l’avvenire. Appena possibile andrò in Israele. La mia nuova famiglia la formerà laggiù; l’uva sono deciso a produrla, non più a commerciarla.
Aggiunge sottovoce fra un sospiro e l’altro:
— Non ho creduto a mio cugino e ho dovuto assistere al massacro di tutta la mia comunità. Ora sono convinto. Il popolo di Israele deve avere anch’esso un focolare, nella terra dei nostri padri. È assurdo pensare ad altre sistemazioni.
Si è fatto tardi; salutiamo Misha, ritorniamo al campo piano piano; bisogna sorreggere Raphael, Papalandreu da una parte, io dall’altra. Ogni tanto ci fermiamo per riprendere flato. Papalandreu ci parla della sua terra, della dolcissima uva dagli acini piccoli che affolla le viti basse, È stato rastrellato senza motivo mentre si recava a potare la vigna.
La somiglianza del nostro cognome si spiega, la mia famiglia è originaria della Grecia. Forse i nostri comuni avi si sono staccati parecchi secoli or sono; fu un addio per l’emigrante in cerca di una vita migliore.

Noi ci troviamo qui accomunati da uno stesso destino, sappiamo soltanto che probabilmente apparteniamo allo stesso ceppo. Nient’altro.