BRUNO CARDINI

Libera_mente

GUERRA PARTIGIANA E POLITICA

Scrivo queste note per quelli che non hanno avuto esperienza diretta o indiretta della lotta di resistenza armata e si trovano, oggi, investiti da una serie di valutazioni e affermazioni che, decontestualizzando i fatti, pongono sullo stesso piano vittime e carnefici o, con operazione ancor più subdola, ma non per questo meno falsa, sostengono che, seppure promossa da nobili intenti, la Resistenza Armata fu inutile se non, addirittura, dannosa. I più noti e pericolosi rappresentanti di tali correnti di pensiero sono lo storico De Felice e il giornalista Giampaolo Pansa.
Credo utile, per prima cosa, percorrere la basi teoretiche della guerra di guerriglia di cui la Resistenza Armata fu espressione.
Carlo Bianco di St. JoriozL'Italia ebbe in Carlo Bianco il Clausewitz della guerra per bande e dell'idea di insurrezione popolare. Bianco, aristocratico piemontese fu ufficiale dell'esercito del regno di Sardegna, divenne mazziniano e morì suicida in esilio in Belgio. Scrisse e pubblicò a sue spese, nel 1830, un libriccino dal titolo "Della guerra nazionale d'insurrezione per bande, applicata all'Italia". C'era tutto quello che serviva; Carlo Bianco aveva tuttavia una visione "giacobina" della guerra di liberazione dallo straniero  e auspicava «l’esterminio di tutti quegli uomini, che per la loro natura, circostanze e pregiudizj, sono al cambiamento decisamente contrarj». Questo estremismo, che parrebbe contrastare con la sua riconosciuta bontà d’animo, era dettato, come notò lo storico Pieri, «assai più da necessità contingenti» della battaglia risorgimentale che da «temperamento». La convinzione che la lotta risorgimentale andasse condotta con metodi radicali gli derivava dalla constatazione che i moti del ‘21 erano naufragati per la sottovalutazione della questione militare, ed era corroborata dall’esperienza della feroce guerriglia spagnola contro Napoleone.
Che Carlo Bianco avesse o no ragione poneva comunque il problema che in una lotta di guerriglia con l'biettivo finale di insurrezione generale non potevano esserci ne' tregue, ne' zone ambigue. Quel tipo di lotta non ammetteva quartiere, riposo, tregue: o era la guerriglia ad obbligare tutti ad una scelta radicale o lo sarebbe stata la reazione del nemico. Forte di questa convinzione Carlo Bianco pose le basi "ideologiche" della spedizione di Pisacane e dei Mille: la guerriglia avrebbe innescato un processo insurrezionale irreversibile con consensi crescenti. Per contro bisognava ammettere che se la guerriglia fosse stata schiacciata all'inizio il processo sarebbe stato facilmente arrestato (come avvenne per il Pisacane). Oltre al contenuto "deologico il Bianco diede fortissime basi teoriche all'azione militare della guerriglia.
Aluni stralci dei suoi scritti "Quanto e più di qualunque altro paese la penisola italiana si presti alla guerra per bande, dimostrano le aspre lotte, sostenute con ben altro scopo da masnadieri in Piemonte, nello stato papale, nel napoletano, la configurazione geografica, lo stesso assetto politico.
Qualità essenziali di questa specie di guerra, dove non possono essere principii di guerra prestabiliti, ma differenti da condottiero a condottiero, sono amor di patria, attività, ostinazione, prudenza, vigore, previdenza e si debbono specialmente spiegare devastando il paese, ritirando ai monti le mandrie, i frutti, i cereali, insomma affamando il nemico come i Russi nel 1812 e piombando sopra di essi quando meno se l'aspetti.
Qualunque arma dev'essere, almeno nel primo slancio popolare, adoperata, la forca, la picca ecc, ma quindi chi fa parte della banda dev' esser provveduto di schioppo con baionetta e di un buon coltello ben tagliente di costa e di punta oltre al pugnale “ arma essenzialmente italiana che ci fu dai nostri progenitori lasciata affinchè si vendichi da noi l' oppressione d'Italia „. Semplici le vesti che non impediscano la sveltezza ed agilità del combattente e di color bruno, così come abbronzate le armi perchè non venga scoperto e appropriate e minute le istruzioni tattiche in parte appoggiate ai libri classici del genere, il Lemière de Corvey, il Decker, il Duhesme ed altri e che ora non è qui il caso di esaminare"
Ed era il 1830! Carlo Bianco aveva capito tutto! La flessibilità della lotta non ancorata a schemi tattici o strategici, ma fortemente vincolata ai contenuti ideali o politici. Addirittura, in un momento in cui gli eserciti erano tutti sgargianti divise e pennacchi, l'idea che i combattenti vestissero panni scuri e che le armi fossero imbrunite. Ci vollero le stragi sulla Marna nel 1814 perchè l'esercito francese  abbandonasse i gloriosi pantaloni rossi per adottare colori più mimetici.

Il secondo teorico da prendere in considerazione è il colonello Thomas e. Lawrence meglio nonto come Lawrence d'Arabia. Oltre alla monumentale biografia pubblicò un libretto di 50 pagine dal significativo titolo di "Guerrilla". Tanto nella strategia quanto nella tattica della guerriglia, Lawrence isola tre fattori: algebrico, biologico e psicologico.
Il primo fattore tiene in poco conto la "variabile umana", avendo a che fare con la misurazione esatta, scientifica, dello spazio fisico da coprire e difendere, e col rapporto tra conformazione del territorio, numero dei combattenti, quantità e qualità delle armi in loro dotazione. Dallo studio di questo fattore, secondo Lawrence, deriva una celebre intuizione: "Ma se [gli arabi, anziché un esercito che attacca a bandiere spiegate], fossero stati come un campo magnetico, qualcosa di invulnerabile, impalpabile, senza capo né coda, elusivo come un gas? Gli eserciti erano come piante, immobili nell'insieme, fortemente radicati, nutriti da lunghi steli fino alla cima. Gli arabi potevano essere invece una sorta di esalazione che si concentrava dovunque preferissero." (pag.21).
Il secondo fattore riguarda da un lato l'intuizione e l'immaginazione ("i nove decimi della tattica sono inconfutabili, ed esposti nei libri: ma la decima parte è irrazionale... ed è lì che i generali vengono messi alla prova", pag.23), dall'altro la sopravvivenza: evitare lo scontro con il nemico, limitarsi a sabotare i rifornimenti e distruggere le infrastrutture, perché ogni vita è preziosa: "i soldati dell'esercito arabo, essendo irregolari, non erano delle unità, ma degli individui, e la perdita di un individuo è come un sasso lanciato in acqua: provoca solo un buco temporaneo, ma forma cerchi concentrici di dolore" (pag.24).
Il terzo fattore concerne il morale degli uomini (nei propri ranghi), i sentimenti e gli umori della popolazione simpatizzante e la guerra psicologica contro il nemico. Qui l'autore usa una frase di grande effetto e respiro: l'esercito arabo era così debole fisicamente "da non poter lasciare arrugginire l'arma metafisica" (pag.29).

E' già il secondo grande teorico che porta all'attenzione il rapporto tra morale dei combattenti e sentimenti della popolazione. In altri termini il rapporto tra politica e lotta armata.
Il novecento è stato il secolo delle terribili guerre, ma anche delle grandi lotte di guerriglia: la lunga marcia di Mao, la lotta del Viet Minh, Cuba. Anche per queste abbiamo i terorici. Di Mao è nota l'affermazione che il combattente guerrigliero deve muoversi nella popolazione come un pesce nell'acqua che lo protegge e lo nutre. Da qui l'attenzione estrema al rapporto con le popolazione toccate dalla lunga marcia.
Della lotta del Viet Minh contro la dominazione francese sono note le indicazioni di Giap che, dopo la sconfitta, sono diventate materia di studio presso la prestigiosa accademia militare di St. Cyr.
Sia Mao Ze Dong che 'Nguyen Giap concepivano lo sviluppo della guerriglia come un percorso per la realizzazione finale di un esercito "regolare". Ciò trovò conferma sia nelle grandi battaglie finali dei comunisti cinesi contro Chang Kay Shek che nell'attacco finale del Viet Minh a Dien Bien Phu. Scrive Giap.
"Sul fronte principale, le nostre unità regolari non avevano più il compito di accerchiare e di bloccare la guarnigione, ma di passare all'attacco e di concentrare le forze per annientare il nemico. [...] Il Comitato Centrale si attenne sempre senza errore al principio strategico: dinamismo, iniziativa, mobilità, decisione istantanea di fronte alle situazioni nuove, avendo sempre l'obiettivo fondamentale della distruzione del nemico e sviluppando al massimo lo spirito offensivo di un esercito rivoluzionario. (V.N. Giap, Guerra del popolo, esercito del popolo, 1960)"
Ancor più chiaro Ernesto Che Guevara 
"Sia ben chiaro che la guerriglia è una fase della guerra che non ha in sé la possibilità di conseguire la vittoria; è una delle prime fasi, per essere esatti, e andrà svolgendosi e ampliandosi finché l'esercito guerrigliero con il suo incremento costante acquisisca le caratteristiche di un esercito regolare. Allora sarà pronto a vibrare al nemico colpi decisivi e a riportare la vittoria. Il trionfo finale sarà sempre il prodotto di un esercito regolare, anche se le sue origini sono state quelle di un esercito guerrigliero. (Che Guevara, La guerra di guerriglia, 1961)
Un aspetto largamente sviluppato da Giap, ma di cui è stato impossibile trovare una sintetica citazione, è il rapporto tra la mobilità di un esercito regolare e quello di un esercito di guerriglia. La guerriglia ha una elevata mobilità tattica, ma mobilità strategica nulla. Ciò comporta che un esercito regolare può operare sempre una concentrazione schiacciante una una o in un'altra zona. Concentrazione che può portare all'annientamento dei partigiani di una specifica zona.
Vo Nguyen GiapMa per operare tali concentrazioni il nemico deve disporre di una riserva strategica o indebolire altre zone. Se nelle zone indebolite la guerriglia (o i partigiani) passano all'attacco il vantaggio strategico dell'esercito regolare viene annullato.
Questo fu il paradigma che Giap seppe imporre ai francesi. L'esercito coloniale francese era stato vittorioso in tutti, proprio tutti gli scontri con il Viet Minh, ma doveva continuamente rafforzarsi per tenere il territorio. Le richieste di soldati in madrepatria non erano comprese ne' dall'opinione pubblica, ne' dal Governo che, a fronte di proclamate vittorie, vedeva continue richieste di soldati.
Gli accademici di St.Cyr pensarono che la soluzione fosse quella di fortificarsi in una zona strategica dove il Vieth Minh sarebbe stato costretto ad attaccare. Gli strateghi francesi pensavano che il Vieth Min, in quel posto sperduto, circondato dalla jungla, potesse portare in linea, al massimo delle mitragliatrici. La difesa di un campo trincerato contro gli assalti della fanteria non sostenuta dall'artiglieria si era dimostrata sia nella prima, che nella seconda guerra mondiale, impossibile. Quando i primi colpi dei 105 del Viet Minh, trasportati a braccia da un esercito di formiche in pigiama nero, caddero all'interno del campo fortificato il responsabile dell'artiglieria francese si ritirò nella sua tenda, si sdraiò nella branda e si fece esplodere una bomba a mano sul petto.
La guerra del Viet Minh è di assoluta importanza per capire la guerra partigiana in Italia.
I tedeschi schieravano oltre 200.000 uomini contro gli alleati, i loro servi fascisti potevano mettere insieme 60.000 uomini per presidiare il territorio, ma i tedeschi dovevano impegnarne altri 100.000 per tenere le linee di comunicazione, i punti strategici della pianura padana, le guarnigioni di guardia agli impianti industriali. Kesselring, dopo la riturata da Roma, costruì in tutta fretta una riserva strategica in funzione antiguerriglia. Riserva costituita da OstTruppen (i famosi mongoli), Brigate nere italiane e alcuni sanguinari reparti antiguerriglia (la Legione Tagliamento, il reggimento Bozen e alcuni reparti della SS). Con metodo e senza pietà questi reparti, dal Luglio 1944 al gennaio 1945, passarono il nord italia come Attila.
In tutte le situazioni in cui le singole formazioni partigiane cercarono di resistere furono annientate. Ebbero successo quelle situazioni in cui ad una offensiva locale dei nazifascisti corrispose un attacco generalizzato della resistenza (es. Valsesia).
Chi poteva e doveva avere la visione strategica generale? I Comandi Militari (CM) del CLN, articolati a livello provinciale e Regionale. Non sempre funzionarono, spesso questi eroi vennero arrestati, fucilati o deportati. Moltissimi morirono nei campi di sterminio tedeschi.
Ma chi, nel dopguerra e ancora oggi, presenta i CLN e i CM come un terreno di battaglia tra partiti politici fa una doppia azione di menzogna: una nel disconoscere i meriti di questi eroi che spesso hanno pagato con la vita, l'altra nel dare l'idea di un movimento di resistenza fatto da bande autonome che spesso non si distinguevano da banditi della criminalità comune.